Gli inganni della flat tax

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Flat tax

Al netto delle opinioni politiche di ciascuno e di conseguenza del diverso grado di soddisfazione con cui possono essere stati accolti i responsi delle urne , il 4 marzo 2018 resta una data da ricordare perchè ha finalmente calato il sipario su una campagna elettorale mai così povera nei contenuti e nello spessore dei leader che la hanno, si fa per dire, animata.

Uno dei temi più caldi è stato quello riguardante la cosiddetta tassa piatta o altrimenti denominata “flat tax” a conferma del principio secondo cui quando non si hanno a disposizione argomentazioni di livello , l’utilizzo della terminologia straniera aiuta a nascondere più di una lacuna.

Con il titolo che ho scelto per questo articolo ho voluto poi evidenziare la stridente contrapposizione tra la modestia non solo nell’estetica linguistica del termine tax flat o tassa piatta che dir si voglia con la suggestione invece provocatoriamente affascinante evocata dal compianto Tommaso Padoa Schioppa che qualificò come bellissime le tasse, quelle non piatte ma progressive, sulle quali mi soffermerò prossimamente.

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L’ideologo del taglio fiscale

Che la tassa piatta , almeno nel modo con cui è stata presentata nel dibattito elettorale, abbia uno spessore poco più alto di una discussione da bar pare quasi profetizzato dal luogo da cui ha spiccato il volo verso la notorietà.

I fatti risalgono al dicembre 1974, quando al tavolo di un ristorante di Washington il giovane e promettente docente di economia dell’Università di Chicago Arthur Laffer incontra alcuni esponenti del partito conservatore, collaboratori dell’allora presidente Gerald Ford. Ad un certo punto della discussione il professore disegna su un tovagliolo un diagramma cartesiano e una curva che diventerà poi famosa come la curva di Laffer. Questo grafico gli frutterà successivamente l’incarico di capo dei consiglieri economici di Ronald Reagan per entrambi i mandati presidenziali dal 1981 al 1989. L’originale di quel tovagliolo è in mostra al Museum of National Heritage di Washington.

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Dato un sistema di assi cartesiani, se indichiamo sull’asse delle ascisse l’aliquota fiscale e su quello delle ordinate il gettito , spostandoci verso destra si nota come, all’aumentare della pressione fiscale il gettito cresce fino ad un livello massimo T* con aliquota fiscale t*, ma successivamente inizia a decrescere fino al suo azzeramento.

Laffer argomenta come l’aliquota del 100% farebbe cessare tutta la produzione : infatti nessuno lavorerebbe se l’intero reddito venisse poi ritirato dallo Stato che non avrebbe entrate fiscali per cui il gettito risulterebbe azzerato.
Allo stesso modo, se la pressione fiscale fosse dello 0%, ci sarebbe la massima
produzione da parte delle imprese, ma anche in questo caso, lo Stato non beneficerebbe di alcun ricavo.

Trikle Down e Supply Side Economy

Il sistema fiscale degli Stati Uniti divideva la popolazione in dodici categorie : i più ricchi assoggettati ad un’aliquota che colpiva oltre il 50 per cento dei loro guadagni mentre i meno abbienti pagavano l’11 per cento .

Appena arrivato alla Casa Bianca il professore di Chicago propone al presidente Reagan un piano di radicale riforma: tre sole classi di reddito, 15 per cento di imponibile per chi guadagna fino a 30.000 dollari , 25 per cento per i redditi da 30.000 fino a 70.000 dollari, e 35 per cento per il livello superiore ai 70.000 dollari che con un secondo intervento del 1986 scese fino al 28 per cento. Il tutto accompagnato da un taglio all’imposizione fiscale sui profitti delle imprese dal 46 al 34 per cento.
Per realizzare le sue politiche, Reagan non ebbe timore ad affrontare duramente il mondo sindacale. Emblematico fu il licenziamento degli 11.000 controllori di volo che aderirono ad uno sciopero nell’agosto del 1981: nessuno di essi fu riassunto. Il sindacalismo americano non si risollevò da quella sconfitta: perse definitivamente il ruolo di grande forza nazionale organizzata e questo spianò la via a una colossale ristrutturazione dell’industria. Milioni di lavoratori fuoriuscirono a seguito della ristrutturazione delle grandi imprese: in molti trovarono un nuovo lavoro ma con salario più basso.

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Sotto la regia, o forse la complicità, di Arthur Laffer il presidente Reagan non solo accelerò il processo di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza che oggi fa sì che la metà più povera della popolazione statunitense, e si tratta di 117 milioni di persone, a tuttoggi vede il suo reddito fermo ai livelli di quegli anni, ma ne fornì anche la legittimazione: arricchire i ricchi , unico modo per far ripartire la crescita.

Risalgono a quell’epoca due termini che sono entrati in pianta stabile nelle grammatiche del linguaggio economico . Supply side economy che si pose come antagonista della teoria keynesiana. Se quest’ultima vedeva la domanda quale motore dell’economia, essa teorizza lo sgravio fiscale delle aziende piuttosto che il sostegno ai consumi, nel presupposto che il risparmio generato venisse dirottato verso gli investimenti.

Il secondo vocabolo, trickle down economy letteralmente “economia dello sgocciolamento”, esprime sostanzialmente il medesimo concetto: la ricchezza accumulata negli strati più alti della società , in mano quindi alle imprese e ad un manipolo di miliardari sgocciola gradualmente verso le classi inferiori. Su questo punto mi piace citare un commento di Papa Francesco: «Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare». «Evangelii gaudium (novembre 2013).

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Quello che Laffer non dice

Tornando a Laffer, la lettura semplificata della sua teoria , che potremmo definire come la versione da campagna elettorale, ha dunque come obbiettivo quello di dimostrare che l’Erario ricaverebbe il massimo beneficio da un’aliquota fiscale uguale per tutti , (quindi piatta) che dovrebbe oscillare tra il venti e il trenta per cento. L’aumento della pressione fiscale indurrebbe invece le imprese a ridurre l’attività economica .

Ben diversi sono i risultati cui conduce una analisi piu approfondita e sicuramente meno agevole che proverò comunque ad illustrare.

I cambiamenti delle aliquote fiscali hanno due effetti sulla ricchezza degli stati: l’effetto aritmetico e l’effetto economico. L’effetto aritmetico determina semplicemente che se le aliquote fiscali calano, le entrate fiscali si ridurranno di un importo pari alla diminuzione del tasso. Vale ovviamente il contrario per un aumento dei tassi d’imposta.

L’effetto economico riconosce l’impatto positivo che le aliquote fiscali
più basse hanno sul costo del lavoro, sulla produzione e sull’occupazione, fornendo incentivi al loro miglioramento. L’aumento dei tassi d’imposta ha di converso l’effetto economico opposto sul sistema penalizzandone la crescita .

I due effetti considerati operano quindi simultaneamente e sempre in direzione opposta. Non è scritto però da nessuna parte che l’effetto aritmetico del calo del gettito dovuto alla diminuzione della pressione fiscale debba essere automaticamente compensato dal fatto che il virtuoso effetto economico che ne deriva produrrebbe una crescita della ricchezza e di conseguenza delle entrate fiscali.

In conclusione

L’analisi di Laffer è in grado di sostenere la tesi che nel breve periodo una riduzione delle imposte conduce sempre ad un calo del gettito (effetto aritmetico) e che successivamente si registrerà un miglioramento in termini di output, lavoro e occupazione (effetto economico) : non ci rassicura però sul fatto che la crescita economica sia sempre e comunque tale da generare un introito per le casse dello Stato idoneo a recuperare quanto perduto in conseguenza dell‘effetto aritmetico.

Non viene garantito quindi che la riduzione delle aliquote sia automaticamente in grado di generare un aumento piuttosto che una diminuzione delle entrate fiscali. L’uno o l’altro risultato dipenderà invece dal prevalere di uno dei due effetti considerati.

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