Tasse piatte o bellissime

 

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Da prelievo odioso a simbolo di appartenenza

Nel precedente articolo mi sono soffermato sulle questioni inerenti alla tassa piatta o comunque ad un sistema fiscale in cui si preferirebbero aliquote più ravvicinate e comunque ribassate. Il tema della riduzione della pressione fiscale è in effetti di grande impatto emotivo ed è da sempre uno dei cavalli di battaglia dei programmi elettorali e politici delle destre liberiste, basti ricordare, in un elenco sicuramente approssimativo per difetto:

  • l’Economic Recovery Tax Act, di Ronald Reagan che ridusse l’aliquota massima sul reddito delle persone dal 70 al 50 % e  il successivo
  • Tax Reform act  che la diminuì ulteriormente fino al 28%
  • la riforma fiscale di Margaret Thatcher
  • l’abolizione della tassa di successione voluta da Silvio Berlusconi poi ripristinata dal governo Prodi,
  • per concludere con i tagli da 1.500 miliardi di dollari in dieci anni ottenuti recentemente da Donald Trump.

Siffatte proposte trovano estimatori, non so se definire inconsapevoli o sprovveduti, anche in fasce sociali che dovrebbero avere interessi di ben altra natura e che tra l’altro contribuirono largamente nel 2007 a far toccare le più alte vette di impopolarità all’allora Ministro delle Finanze Tommaso Padoa Schioppa quando pronunciò la frase, passata agli annali, “Le tasse sono bellissime”.

In questo secondo intervento sul tema fiscale intenderei evidenziare le dissonanze tra le due impostazioni del modo di concepire il dovere fiscale e quindi provare a dimostrare che i tributi, quando non vengono grossolanamente sminuiti ad asimmetrica obbligazione tra Contribuente ed Erario, cessano di rappresentare un prelievo odioso e si elevano a simbolo di appartenenza alla collettività.

Letta in questo contesto , che è poi quello codificato nel principio di solidarietà dell’articolo 2 della Costituzione , l’imposta acquista un altissimo e civilissimo valore sociale. Attraverso la messa a disposizione di una parte delle sue ricchezze, l’uomo conferma l’essenza di animale sociale dando contemporaneamente senso alla propria dimensione individuale .

Come tutti i sistemi sociali anche l’apparato tributario è soggetto a imperfezioni ed è pertanto criticabile e migliorabile.

Mi piace però ribadire in questa sede che le sue distorsioni più che provenire da una inadeguatezza del dettato costituzionale dipendono da una sua non rispettosa applicazione in sede parlamentare: in questo contesto rientra, a mio parere ampiamente, l’adozione di normative che determinano l’appiattimento delle aliquote fiscali oppure che favoriscono l’elusione dei tributi o che al contrario introducono meccanismi di presunzione di reddito eccessivamente penalizzanti per il contribuente.

L’indagine che mi accingo a sviluppare non ha ad oggetto la riabilitazione della figura del compianto Ministro, la cui levatura professionale e culturale non ha certamente bisogno di essere rivalutata in queste righe.

L’obbiettivo che mi propongo è invece quello di evidenziare gli effetti che conseguono all’applicazione del concetto di progressività dell’ imposta, così inviso ai sostenitori della cosiddetta flat tax, il quale però, combinato con gli altri principi costituzionalmente rilevanti di uguaglianza, solidarietà e capacità contributiva permette alle tasse di essere, realmente, bellissime.

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Obbligo fiscale e dovere di solidarietà

Il principio di capacità contributiva, è contemplato nell’art. 53 Cost. il primo comma del quale così recita : «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Si tratta, come si intuisce, della regola fondamentale che individua il criterio con cui debbono essere ripartiti i carichi pubblici.

In essa ritroviamo due valori di portata straordinaria che dovrebbero essere tenuti a mente da coloro che ritengono vessatorio il pagamento dei tributi e che festeggiano come una liberazione il cosiddetto free tax day, cioè la data dell’anno fino alla quale il reddito generato dall’impresa è usato per il pagamento delle imposte e dei contributi. Con questo non intendo certo dire che il contribuente debba esultare di fronte alla cartella esattoriale, il cui arrivo però non dovrebbe peraltro suscitare sussulti di ribellione e manifestazioni di sdegno maggiori rispetto ai momento in cui i figli presentano il conto del nuovo smartphone o delle spese universitarie. Nelle righe che seguono proverò ad allontanare il sospetto di blasfemia che qualcuno avrà nel frattempo sollevato.

Il primo concetto, la cui fonte normativa è “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche…”, esprime con forza il principio secondo il quale essere cittadino significa fare parte integrante di una comunità.

Come all’interno della cellula sociale più elementare, la famiglia, i genitori provvedono ai figli in quanto tali e non secondo il calcolo utilitaristico di quanto da essi potrebbero ricevere durante la vecchiaia, e come, all’inverso, il figlio che accudisce il genitore anziano non ha come limite al suo operare l’ammontare delle spese che sono state per lui sostenute in gioventù, così il dovere tributario all’interno della comunità statale non va adempiuto nel presupposto che ne verrà restituito un valore economicamente analogo ma lo si osserva perché si è partecipi, corresponsabili e cointeressati alle esigenze e alla sopravvivenza della comunità medesima.

La contribuzione ha come fondamento il presupposto che il suo assolvimento debba soddisfare esigenze non individualistiche ma sociali. L’interesse fiscale non va dunque considerato alla stregua di un normale pagamento il cui equivalente deve essere rapportato al costo dei servizi ricevuti.

Esso si inserisce nel contesto dell’insieme dei valori che costituiscono il tessuto costituzionale: in particolare va ad rapportarsi con le esigenze fondamentali di protezione e di sviluppo della persona e della dignità individuale.

Una breve riflessione merita anche il profilo soggettivo della norma.

Lo Statuto albertino del 1848 affermava all’art. 25 che tutti i “regnicoli” dovevano contribuire ai carichi dello Stato nella proporzione dei loro averi.

Nei lavori preparatori alla stesura della Costituzione del 1948 emerge invece l’indicazione che il testo definitivo doveva contenere una locuzione che permettesse di coinvolgere anche gli stranieri tra i soggetti passivi del carico tributario. La scelta cadde sulla formulazione sintetica, idonea all’asciuttezza e alla perentorietà dei testi costituzionali, che è riportata nell’art.53 Cost. Nel “Tutti devono concorrere” si ricomprendono pertanto anche gli stranieri.

La globalizzazione, almeno così come la conosciamo, era ben al di là dal venire, ma mi piace pensare che il testo costituzionale abbia voluto anticiparne le problematiche. Dobbiamo pertanto essere grati alla scelta di questo “tutti” che permetterebbe al Legislatore dei nostri tempi, se solo ne avesse l’intenzione e la personalità, di assoggettare con fermezza all’obbligo tributario anche i profitti delle imprese con sede all’estero qualora siano maturati sul territorio nazionale .

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Mattia Preti il tributo Pinacoteca di Brera

Capacità economica e capacità contributiva

Il secondo concetto su cui voglio e invito a riflettere è contenuto nella parte finale del primo comma: ” …in ragione della loro capacità contributiva“.

La scelta del legislatore costituzionale di “capacità contributiva” quale espressione idonea a stabilire il criterio che doveva essere utilizzato per definire il quando e il se la contribuzione diventa obbligatoria, non è stata ancora una volta casuale e tanto meno priva di contrasti.

Abbiamo appena visto come lo Statuto albertino aveva adottato la nozione di “averi“. La bellissima Costituzione della Repubblica di Weimar, proponeva invece il termine “mezzi“.

Proseguire sul medesimo piano lessicale avrebbe potuto essere interpretato come un segnale di indifferenza alle effettive condizione economiche dei soggetti chiamati a concorrere all’interesse comune.

Averi e mezzi potrebbero infatti essere sintomi di una capacità economica non necessariamente coincidente con una adeguata capacità contributiva: così, ad esempio, un reddito minimo, che si posiziona all’interno della cosiddetta soglia di povertà , manifesta una sia pur modesta capacità economica ma nessuna capacità contributiva.

Ancora una volta i verbali delle sedute dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente vengono in soccorso per testimoniare della volontà di evitare che l’imposizione colpisca chi possiede soltanto «un minimo necessario al soddisfacimento delle esigenze inderogabili della vita».

È la capacità contributiva, dunque, che permette al Legislatore di distinguere tra soggetti idonei ad essere chiamati al dovere di solidarietà in quanto in grado di sopportare l’imposizione tributaria , e soggetti che ad esso possono sottrarsi a causa di una condizione economica che non ne legittima un sacrificio di reddito. E’ sempre la distinzione tra capacità contributiva e capacità economica che giustifica l’esclusione dalla tassazione di chi è titolare di ricchezze minimali e quindi in grado di soddisfare solo i bisogni primari della persona.

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La progressività di imposta

Una volta definito che la capacità contributiva permette di individuare quali sono i soggetti che legittimamente possono essere chiamati a concorrere alle spese dello Stato , resta da decidere il criterio che deve essere adottato per quantificare l’ammontare del prelievo fiscale su ciascun contribuente.

Un sistema fiscale basato su una aliquota unica , la ormai ben nota flat tax, conduce a due considerazioni dalle quali è difficile dissentire. La prima ci riporta ad una precedente analisi condotta su queste pagine da cui emergeva che la tassa piatta , fondata sul principio elaborato da Arthur Laffer non garantisce di per se il massimo introito per le casse dell’Erario.. La seconda è che si tratterebbe di una misura oltremodo ingiusta.

Le parole pronunciate dall’onorevole Salvatore Scoca durante la seduta dell’Assemblea costituente del 27 maggio 1947 , sono improntate ad una rigorosa lucidità accompagnata da una ottima conoscenza del marginalismo economico di Walras, Menger e Jevons: «Chi ha dieci mila lire di reddito e ne paga mille allo Stato, con l’aliquota del 10 per cento, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha centomila, dopo aver pagato l’imposta del 10 per cento in base alla stessa aliquota, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo. Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».

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Il principio auspicato dallo Scoca e poi approvato in Assemblea muove dal presupposto che affinchè il sacrificio fiscale sia uguale le aliquote operanti debbono essere diverse.

Già nell’Atene del IV secolo A.C. Solone riforma la società dividendo la popolazione in quattro classi non più in base alla nascita ma a seconda del reddito e sembra che ad esse venisse applicato un tributo in percentuale crescente rispetto alla dimensione della ricchezza posseduta. Francesco Guicciardini (1483 –1540) testimonia di come nella Firenze dei Medici le ricchezze erano distinte in necessarie, di comodità e superflue ; un’imposizione progressiva intaccava le superflue ovviamente possedute dai ricchi , non toccando invece le necessarie , uniche a disposizione dei meno abbienti. Un esempio passato alla storia è l’imposta sul reddito fondiario, chiamata “Decima scalata” o “Graziosa”, introdotta da Lorenzo De Medici , che poneva un onere elevato e crescente sulla proprietà al punto che per pagarlo i fiorentini erano in alcuni casi costretti a vendere i propri beni.

Il conflitto tra linee di pensiero secondo cui le tasse sono comunque elementi di distorsione in quanto disincentivano al lavoro , al risparmio e di conseguenza penalizzano gli investimenti e lo sviluppo , e teorie che al contrario vorrebbero più accentuata l’impostazione progressiva del sistema tributario per usufruirne degli effetti redistributivi , vede in epoca di globalizzazione e di capitalismo rampante una decisa svolta verso la prima interpretazione.

Quando venne istituita l’Irpef, all’inizio degli anni Settanta, le aliquote andavano dal 10% al 72% e gli scaglioni di reddito erano 32. Gli anni a seguire videro una progressiva semplificazione fino ad arrivare al 1998, anno in cui l’imposta assume l’attuale fisionomia con solo cinque scaglioni e aliquote che oscillano dal 23% al 43%. Questo significa, semplificando forse oltre misura, che i poveri pagavano il 10% e adesso il 23%; mentre i ricchi che prima pagavano il 72%, adesso versano solo il 43%. Il senso dell’operazione è però drammaticamente evidente: si sono aumentate le tasse ai primi per poterle diminuire ai secondi.

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Thomas Piketty

Il pericolo che il mondo occidentale sta correndo è magistralmente raccontato nel best seller di Thomas PikettyIl Capitale nel XXI secolo“. La tesi sostenuta dall’economista francese è che l’accumulo delle ricchezze negli strati più elevati della società farà si che i patrimoni rendano di più del lavoro, per cui i miliardari del futuro ,ancor più di quelli di oggi , saranno propensi a godersi le rendite patrimoniali piuttosto che investire le loro ricchezze nelle attività produttive, unico strumento per soddisfare i bisogni di quel 99% dell’umanità che di patrimoni rilevanti non dispone.

Lo strumento principale che Piketty suggerisce di utilizzare è un’imposta progressiva sul patrimonio che dovrebbe essere introdotta non a livello nazionale ma su scala mondiale.
Il tributo cui pensa Piketty è un’imposta patrimoniale, da pagare tutti gli anni. Essa deve essere progressiva, con una struttura a scaglioni simile a quella dell’imposta sul reddito: fino ad un certo livello il patrimonio è esente, quindi viene colpito con un’aliquota prima contenuta e poi via via crescente. Piketty formula un esempio con tre aliquote: una fascia esente fino ad un milione di euro; 1% da un milione a cinque milioni; 2% dai cinque milioni in su. Un’imposta così congegnata, considerando che i contribuenti chiamati al pagamento sono solo il 2,5% del totale ma possiedono il 40% dei patrimoni, raccoglierebbe mediamente due punti di PIL che nel nostro paese valgono circa trenta miliardi di euro.

Il contributo dell’economista francese non può non farci riflettere sul fatto che il fortunato assetto sociale politico ed economico maturato in Occidente negli anni del secondo dopo guerra che ha dato origine al lungo periodo di prosperità che in Italia abbiamo chiamato il “boom economico” e che per i francesi sono ” i trenta gloriosi“, ha alla base la concomitanza dell’attuazione del principio di progressività fiscale con l’avvento del modello di stato sociale. Si tratta della formula vincente che ha prodotto l’unica parentesi in cui il processo di redistribuzione della ricchezza sembrava aver intrapreso la giusta direzione.

Uno Stato che attraverso il contributo di chi dispone di maggiori risorse raccoglie quanto necessita alla concreta realizzazione dei diritti sociali e si fa carico quindi delle spese per la sanità, l’istruzione, il sostegno dei redditi familiari, le politiche abitative ecc , costruisce l’unico e vero reddito di cittadinanza di cui abbiamo bisogno realizzando cioè in senso pieno, sostanziale e non formale, il principio di uguaglianza.

3 pensieri su “Tasse piatte o bellissime

  1. Sono daccordo nel mantenere la progressività delle imposte, anche perché più il reddito è basso più è alta la propensione marginale al consumo, quindi la progressività delle imposte sostiene la domanda interna.

    Ma credo anche che una imposizione fiscale troppo progressiva sarebbe immorale quanto una imposizione fiscale proporzionale o ‘piatta’.
    Sono profondamente convinto infatti che sia conforme alla natura delle cose che esistano i diritti alla proprietà individuale dei beni, alla trasmissione ereditaria degli stessi e che ci siano differenze di ricchezze e di potestà tra le persone, quindi nel decidere l’imposizione sul patrimonio, sulle successioni e sulla ricchezza in generale è bene tenere a mente che si tratta di diritti naturali che non sono di per loro ingiusti. Questo tra l’altro è anche ciò che sosteneva Pio XI nell’encicl. Quadragesimo anno del 1931.

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    1. In passato avrei sottoscritto la tua osservazione, preziosa e coerente. L’aumento della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza generata dalla mancanza di controlli sulle Multinazionali, dall’inadeguatezza delle elites dirigenti e sostenuta anche dall’illusione (abilmente indotta) di chi ricco non è di poterlo facilmente diventare ,mi porta invece oggi a sostenere la necessità di un deciso intervento sulla progressività dell’imposta.
      Non mi riferisco certo ai redditi derivanti dal lavoro : i profitti dell’impresa e i salari dei lavoratori vanno, al contrario, tutelati e detassati. Diversa dovrebbe invece essere la strategia nei confronti dei patrimoni frutto di investimenti finanziari o comunque quelli che producono rendite senza che chi le percepisce abbia mosso un dito. Ti sembra giusto che un bene reale (automobile, computer etc), che costa fatica inventiva organizzazione e rischio di impresa sconti l’iva al 22% mentre la rendita finanziaria maturata con i clic del computer e che sottrae risorse all’economia reale sia tassata solo al 26%? Anche se apparentemente odiosa (tu l’hai definita immorale) , anche l’imposta sulle successioni andrebbe aumentata quando l’asse ereditario supera una certa soglia. Non per niente troviamo scritto che la Repubblica è fondata sul lavoro, in quanto evidenzia i meriti dell’uomo e modifica ( con fatica) la realtà adeguandola ai nostri bisogni . I patrimoni accumulati senza lavoro, compresi quindi quelli ereditati, sfuggono da questa impostazione e quindi andrebbero colpiti.
      Grazie per il tuo contributo e spero di rileggerti presto.

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  2. È vero l’impostazione di molti padri costituenti era quella di privilegiare i redditi da lavoro, scelta che in linea generale è giusta. Ma non è vero che il lavoro sia il solo modo onesto di guadagnarsi da vivere (come scrisse anche Pio XI nell’encicl. Quadragesimo anno che a me piace citare) e che non esistano altre fonti di guadagni meritevoli di un qualche occhio di riguardo.
    Lo so che molti non condividono o non comprendono questa impostazione ma penso che la proprietà e l’eredità vadano tutelate (anche astenendosi da tassazioni esose) perché sono conformi al diritto naturale (ius naturalis) cioè a delle leggi che precedono quelle umane.
    In particolar modo è da tenere presente che l’eredità è la successione dopo la morte del diritto/dovere di sostenere economicamente i propi cari.

    Bisogna anche tenere presente che FINCHÉ i capitali e il denaro saranno liberi di circolare liberamente come lo sono oggi, le rendite finanziarie non potranno essere troppo tassate perché ciò porterebbe a degli spostamenti di capitali all’estero.

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